Un nome, un programma che spesso si realizza: il placebo – letteralmente “io piacerò” – è un effetto noto da millenni, ma solo di recente sono iniziate a emergere le sue radici neuropsicologiche. Lungi dall’essere un semplice inganno, questo meccanismo è una parte fondamentale di ogni processo di cura, dalla diagnosi al farmaco, passando per la relazione con il medico. Ecco come funziona. Non esiste un solo effetto placebo: è più corretto parlare di una serie ampia di fenomeni – rituali, simboli, fattori strettamente legati alla malattia e al rapporto con i medici – che ruotano attorno all’assunzione del farmaco (o dello zuccherino). Ne elenchiamo alcuni.
1) La regressione verso la media. È quel fenomeno per cui i sintomi manifestati dal paziente alla prima valutazione medica sono in genere più gravi rispetto a quelli espressi in un secondo momento. In molti casi – non in tutti – il tempo stesso è un placebo, che attenua i disturbi per i quali avevamo cercato aiuto, e senza che il farmaco sia intervenuto.
2) Tendenze (molto) comuni. Gli psicologi hanno notato che le persone tendono a muoversi in un ambito “sicuro” dettato da convinzioni precedentemente acquisite. Se un paziente spera che un trattamento sia efficace, concentrerà l’attenzione su ogni minimo segno di miglioramento, mettendo da parte quelli che suggeriscono il contrario.
3) Il potere delle aspettative. Il placebo riguarda anche qualcosa che impariamo dall’esperienza. Quando assumiamo un farmaco e vediamo che ci fa bene, ce ne ricordiamo per le volte successive. Qualcosa di simile accade anche con le pillole, o con gli interventi finti. In uno studio sull’associazione tra colori e scariche elettriche è stato per esempio notato che dopo aver imparato ad associare il verde alle scosse più “soft” e al rosso quelle più forti, i volontari percepivano realmente gli shock associati al verde come più deboli, anche quando non era così. Ciò significa che impariamo a sentire più o meno dolore anche in base a input esterni. Gli effetti analgesici della morfina, per esempio, sono maggiori se sappiamo di che cosa si tratta o se a somministrarla è un’infermiera (che vediamo e con la quale possiamo parlare). Se al contrario è un robot a fornire gli antidolorifici, e ad orari non noti, serve una dose doppia per avvertire pari effetti benefici. Per questo stesso motivo, nelle operazioni chirurgiche per lenire qualche forma di dolore i finti interventi (dove al di là dell’incisione e dei punti di sutura, non si fa nulla) funzionano bene quasi quanto quelli veri. Funziona anche all’opposto: se le aspettative sono pessime, la cura avrà meno efficacia (è l’effetto nocebo).
4) Il condizionamento del farmaco. I pazienti trattati per diversi giorni con farmaci “veri” possono continuare a sperimentare i benefici della cura anche se, all’improvviso e a loro insaputa, il farmaco viene sostituito con un placebo.L’effetto è stato osservato per esempio su pazienti con malattia di Parkinson. Dopo cinque giorni di trattamento con farmaci anti-Parkinson, alcuni di essi hanno ricevuto un placebo: il loro cervello ha continuato a rispondere come se stessero assumendo la molecola precedente. Ciò accade perché l’organismo impara ad associare l’assunzione di una pillola a una determinata risposta da attivare. Funziona tuttavia solo in quei casi in cui viene stimolato un processo che il corpo è in grado di compiere naturalmente – per esempio, secernere oppioidi endogeni con effetto antidolorifico.
5) L’apprendimento. Se vediamo qualcuno trarre beneficio da un placebo, quando sarà il nostro turno la risposta sarà più forte.
6) La connessione umana. Il rapporto con il medico e le condizioni in cui il trattamento è somministrato possono davvero fare la differenza. In uno studio dei primi anni 2000, gli scienziati dell’Università di Harvard hanno condotto uno studio sugli effetti dell’agopuntura su 260 pazienti con sindrome dell’intestino irritabile, una condizione debilitante che comporta dolori intestinali e alterazioni nel metabolismo e che è spesso liquidata come “un problema di testa”. Un primo gruppo di pazienti ha ricevuto trattamenti da un agopuntore che si interessava alla loro situazione e alle loro vicende personali, mostrando empatia; un secondo gruppo, da un operatore che parlava il minimo indispensabile; il terzo gruppo è stato lasciato in lista d’attesa. I pazienti del primo gruppo hanno riportato significativi miglioramenti in più rispetto agli altri. Non si tratta, quindi, soltanto di una questione di pillole. Molto dipende dal contesto in cui quelle pillole sono somministrate.
Fonte FOCUS https://www.focus.it/scienza/salute